Fronde d’albero di Mozzacoda, adesso
liturgia parola domenica ventisette
E le nostre tenerissime timidezze
XXVII domenica del Tempo Ordinario C (Abacuc, Timoteo, Luca)
E poi chiudere la porta e dire “ho solo fatto quello che dovevo fare”, senza una punta di falsità, senza aspettarsi nulla, senza attendere nemmeno l’applauso di qualcuno pronto a premiare la nostra umiltà. Forse basterebbe pensarlo, sì, meglio pensarlo solamente, in silenzio e con serena sicurezza, senza enfasi, dal fondo di un copro stanco eppure sicuro di sé, contento “di aver fatto quello che doveva fare”. E poi chiudere la porta degli occhi, senza sbatterla, trattenere in eterno il respiro dopo aver consegnato l’ultimo. E amen.
Mi piacerebbe finire così.
Ma per arrivare fin lì c’è una cosa che bisogna imparare, ed è l’unica cosa che conta nella vita, forse. Occorre capire cosa si intenda esattamente con “quello che dobbiamo fare”. Cosa dobbiamo aver fatto davvero per arrivare a dire che siamo servi, semplicemente servi, che hanno obbedito a un ordine? Quale è questo ordine? Chi è il capo?
Il capo è sordo, fondamentalmente inutile e si limita ad essere spettatore dei nostri drammi. E questo non facilita le cose. Abacuc, il profeta, nella prima lettura di oggi trova il coraggio di dare voce a tutto ciò che spesso pensiamo ma che non abbiamo il coraggio di esplicitare. Abacuc alza lo sguardo verso un cielo vuoto, come sempre, e alza la voce, e urla con la sfacciataggine e l’imprudenza di un adolescente non ancora conscio di far parte della diffusa mediocrità del genere umano. Abacuc non ci sta e noi, come scolari che non vogliono perdere la fiducia della maestra, come primogeniti che da lontano spiano le peripezie del fratello minore, stiamo ad ascoltare, così, per vedere come va a finire, facendo segretamente il tifo per lui. Abacuc, pazzo ingenuo profeta non si lascia pregare e scaglia contro Dio le accuse più spietate: sordo, impotente e freddo spettatore dei drammi umani! Scandalose le accuse. Ma ancora più scandalosa la risposta di Dio: che non nega. Solo si limita a dire che però ogni cosa finisce, ogni cosa ha un termine, niente, nemmeno il dramma più osceno è infinito. Come a dire “io non faccio nulla per toglierti il dramma di vivere però ti assicuro che la fatica non è eterna, finisce”. Non è una gran risposta, non è tra quelle che potremmo definire consolanti o convincenti. Solo che è terribilmente vera, la prima cosa che sentiamo è che quella è la risposta inscritta dentro ogni cosa che ci circonda. Ogni cosa muore, questo è certo, Dio sarà inutile ma almeno non mente.
Ma sarebbe risposta comunque fastidiosa se dimenticassimo un piccolo particolare: che a parlare è proprio Dio. E allora è chiaro che la prospettiva cambia. Ogni cosa ha un termine, certo, ma se sono io, Dio, a dirtelo significa che alla fine di tutto io ti prometto di esserci. Io non sono invenzione, io sono colui che ti parla. Dio diventa termine, approdo di ogni vita che nasce davvero quando muore. Sapere di chiudere gli occhi per aprirli nei suoi è una bella promessa.
Ma c’è una terza cosa che bisogna comprendere di questa risposta divina: se tutto termina in Lui allora il tempo che viviamo diventa lo spazio dell’attesa e non della lotta per non morire. E poi se tutto termina in Lui anche il suo volto cambia completamente: non più un dio sordo ai nostri lamenti ma un Dio che con noi ascolta il poetico rantolo finale di ogni istante e lo raccoglie. Non più il dio impotente che rimane freddo davanti ad ogni violenza ma Colui che entra dentro ogni gesto di violenza per non lasciarlo orfano dell’Eterna Speranza. Non il dio spettatore lontano delle nostre vite ma il compagno di viaggio, colui che dice “attendiamo la fine di ogni cosa insieme, impariamo dagli alberi e commuoviamoci per come muoiono gli animali, arrabbiamoci per quando muore un bambino, piangiamo dentro il dramma della vita che non riesce a vivere ma insieme impariamo ad aver fede. Io, Dio, devo imparare ad avere fede in te uomo, a non intervenire come fossi un maestro impaziente, e tu impara l’arte di morire. Perché solo chi impara a morire affidandosi può reggere lo scandalo di essere venuto al mondo”.
Ma questo Dio silenzioso è uno scandalo, e Timoteo è bello quando nella seconda lettura mostra di aver vergogna di lui. Timidezza e vergogna vengono citate da Paolo in pochissime righe e io mi sono già innamorato di lui, di Timoteo. Che non può non vergognarsi di un Dio debole e di un maestro, Paolo, che è in carcere. Cosa può fare questo povero uomo per dire, alla fine della sua vita, “abbiamo fatto quello che dovevamo fare”? Glielo dice Paolo “custodisci il bene prezioso che ti è stato affidato” cioè la vita e una vita in cui poter sperimentare di essere amato da Dio. Punto. Alla fine della vita rimane solo la nostra capacità di essere amati nonostante le nostre vergogne (spesso giustificate) e le nostre tenerissime timidezze. Che Paolo soffra pure per il Vangelo in carcere, se quello è il suo modo per essere fedele alla vita è giusto sia così. L’importante è trovare un modo, il nostro modo, per sentire che siamo amati e che l’approdo sarà in mani sicure, le Sue.
Ed eccoli, tenerissimi, gli apostoli del Vangelo di oggi, adesso possiamo provare a capirli, belli nella loro ingenua, goffa, tremante richiesta “accresci in noi la fede”. Domanda tanto tenera quanto inutile. Che manca un pezzo. Accresci in noi la fede verso chi? Gesù è chiaro, non è la fede dell’uomo verso Dio a salvarci, in quella pure la fede di un granello di senape ci batte. No, a noi è chiesto di accrescere la fede nella misericordia divina. E per farcelo capire ecco l’esempio del servo… un servo, alla fine deve imparare a essere fedele al suo essere servo, se un servo è servo lo sarà fino alla fine. Il servo non è l’uomo ma Gesù stesso. Che se ci ha amato e perdonato e lavato i piedi qui perché dovrebbe cambiare? Non può e non vuole. Accresci Signore la fede nella tua promessa, nella tua alleanza, nella tua fedeltà, lascia perdere la nostra che è sempre piccola e un po’ ridicola. Alla fine abbiamo fatto quanto dovevamo fare, dirà Gesù, io ero fatto d’Amore e dovevo solo essere amore, fino alla fine. E l’ho fatto. E noi? Semplicemente servi della nostra umanità, solo questo. Ciò che dobbiamo fare è vivere, provare ad amarci, farci meno male possibile, spargere lacrime e sorrisi, parole sempre meno violente, sprazzi di perdono, attimi di follia, passaggi di silenzio… Vivere, con tutto quello che ci sta dentro. E intanto imparare a credere a quell’Amore che ci aspetta, che aspetta ogni cosa con sorriso complice e dolce, oltre il bordo ultimo del visibile.