Articolo di Laura Badaracchi apparso su “Avvenire” di domenica 10 maggio 2020
Il prete bergamasco «eremita»: nella pandemia vediamo il Crocifisso
La testimonianza di don Alessandro Dehò, che ha scelto di dedicarsi alla preghiera in un borgo della Lunigiana
Dallo scorso settembre vive a Mulazzo, nella Lunigiana, ma è originario di Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo. E a casa è tornato qualche settimana fa per dare l’ultimo saluto al padre, morto di coronavirus come anche due zie. «Papà era molto orgoglioso della mia scelta», ricorda commosso don Alessandro Dehò, 45 anni da compiere il 31 maggio, prete dal 2006, che dopo un lungo discernimento con un padre gesuita e felici esperienze parrocchiali (prima a ScanzoRosciate, fino al 2013; l’ultima ad Arcene, nella Bergamasca), ha deciso di vivere in un paesino abitato da altre cinque persone, di dedicarsi alla preghiera e al silenzio sì, ma anche all’ascolto attento di chi incontra e di chi lo va a trovare. Leggendo, scrivendo, scavando in profondità e tagliando la legna, zappando l’orto, cuocendo il pane. Con la benedizione dei rispettivi vescovi: quello della diocesi di appartenenza e di quella che lo accoglie, Massa Carrara-Pontremoli.
«Sono cresciuto in parrocchia, impegnato nell’oratorio e nel commercio equo e solidale. Da bambino i miei mi portavano alla Messa celebrata da padre David Maria Turoldo», racconta. Affascinato da don Tonino Bello e don Lorenzo Milani, poco più che ventenne parte con i Padri Bianchi per un’esperienza in Africa durata un mese. Ma non è quella la sua strada. Durante il percorso come obiettore di coscienza in una struttura per minori, conosce padre Claudio dei Somaschi e nasce un’amicizia ricca anche di letture condivise, di approfondimento della Scrittura. Intanto Alessandro studia per diventare infermiere, poi inizia a lavorare prima in un reparto di psichiatria e poi di ematologia; capisce che la sua chiamata è al sacerdozio ed entra in seminario. «In quei giorni muore padre Claudio per una leucemia, a 33 anni. Ricordo il suo sguardo bisognoso e povero prima di spegnersi a Pavia, simile a quello di mio padre: uno sguardo misterioso, che si denuda e ti oltrepassa, che si mostra vulnerabile. Spazi di croce e risurrezione insieme da cui mi sono sempre lasciato interrogare, sia durante il lavoro in ospedale, sia quando ero parroco e ho tentato di accompagnare con tutto me stesso le persone che partecipavano ai funerali». Per don Dehò l’incontro con la sofferenza in questi mesi di pandemia «ha manifestato il Crocifisso, la sconfitta, il lievito che sembra inutile, lo scandalo nella sofferenza. Ci invita a vivere il fallimento con tanta umiltà. Il Vangelo abita in ogni luogo dove l’uomo sente il bisogno di essere amato e il coronavirus, come tutte le fragilità, ci ha manifestato il grande bisogno di essere amati». E insiste: «Credo in una Chiesa che diventa evangelica quando non ha paura di essere povera radicalmente, di lasciarsi spogliare. Una Chiesa che non dà risposte, ma che parla quando si mostra vulnerabile, sconfitta, colpita, in un’incarnazione vera. Papa Francesco lo ha mostrato il 27 marzo, pregando in una piazza San Pietro vuota».
In località Crocetta don Alessandro non vive come un’eremita, ci tiene a precisarlo: «Mi sento un fratello tra i fratelli, cerco di offrire uno spazio accogliente d’incontro. Vengono a trovarmi persone per parlare. Accompagno, più che dare soluzioni. Preghiamo, camminiamo, mangiamo insieme, nella semplicità: ognuno ha il suo percorso». Nel blog alessandrodeho.com pubblica riflessioni e omelie postate anche sul profilo Facebook, molto seguito. «Ma il mio uso dei social è da vecchio», scherza. E torna a contemplare l’orizzonte.