Articolo scritto per la Caritas di Bergamo
Voglio morire
Bisogna voler morire. Impararlo. Con pazienza. Ogni giorno, prendere una parte di noi e ammazzarla. E farlo in silenzio. Come gesto sacro. A noi stessi. Giorno dopo giorno. Sgranare la morte. Rosario sapiente.
E mentre facciamo morire una parte sempre nuova di noi smascherare ogni tentativo di fuga. Accorgersi che la maggior parte di quello che facciamo non è altro che un tentativo di resistenza (patetica ed inutile) al dramma del morire.
Facevo l’infermiere, secoli fa. Mi ricordo benissimo il germogliare in me di un pensiero lucido e terribile, ero un ragazzino e avevo visto molte persone morire, molte anche guarire, ma mi ricordo perfettamente il senso di sconfitta anche davanti alle guarigioni. Fingevo di non chiedermelo eppure l’ombra era lì: quanta vita abbiamo regalato a questa persona? Morirà comunque. Non esiste soluzione. E il dubbio c’era: abbiamo solo dilatato la sofferenza di vivere.
Chissà se è stato anche questo pensiero a portarmi in seminario, chissà. Pensavo di poter trovare, da prete, le parole giuste per l’Irreparabile. Dare Senso. E allora ad ogni funerale ecco l’ossessiva attenzione, il maniacale senso di responsabilità, il voler trovare qualcosa di personale da dire per ogni fratello, per ogni sorella morta. Ed entrare nel Vangelo e usare tantissimi brani diversi per poter rileggere la vita dal punto di vista del morire. Per dire che a risorgere si impara ogni giorno, amando. Ora non sono più in parrocchia e i riti funebri sono la cosa che mi mancano di più. Ma forse nemmeno questo bastava, davanti alla morte. Nemmeno opporre parole di vita e di amore.
Adesso scrivo da una casa immersa nel bosco, ho appena perso papà, in modo drammatico, ma fuori la primavera si ostina a cantare. Non mi dà fastidio. Ma conservo memoria dell’inverno appena trascorso. E non dirò che la saggezza è nel sapere che dopo l’inverno c’è la primavera ma, al contrario, saggezza è nella primavera stessa che, spietata, si consegna ogni anno all’inverno. Quello dobbiamo imparare. Imparare a morire. Perché l’ultimo respiro umano è sempre invernale.
Imparare a morire, come a sapersi consegnare un pezzo alla volta al Mistero. Come voler insistentemente indicare un Altrove che deve essere per forza più grande di una semplice transitoria primavera. L’inverno come pertugio, porta stretta, passaggio. Pasqua?
Io voglio morire un pezzo alla volta per imparare a sentire che ogni parte dell’uomo aspira all’Eterno. O credere e imparare questo oppure consegnarsi al dramma di una vita senza senso.
Vi prego di non leggere queste righe come un esercizio sterile di pensiero. Prendere sul serio il morire significa accorgersi di quanto, per esempio, anche le nostre attività parrocchiali siano spesso un tentativo di non riuscire a morire. L’iperattivismo, anche di certe Caritas parrocchiali, nasconde spesso, in tantissimi volontari, la paura di morire, di essere inutili, di non contare più niente, di uscire dal gioco dopo la vita lavorativa. Sentirsi utili, va bene, ma fino a quando?
Intanto moltiplichiamo. Le nostre parrocchie moltiplicano. Anche in questo periodo di Coronavirus guardo con certa malinconia l’ingenuo tentativo di tante parrocchie… via web si moltiplicano i tentativi per non morire. Si replica una pastorale identica all’ordinario ma usando canali diversi, come Facebook, canali che fino al mese scorso qualcuno considerava la rovina delle comunità. È chiaro che chi crede in questo sta solo prendendo tempo per sperare di tornare presto ad un “prima”, quando le cose, secondo lui, funzionavano.
Io credo che questo tempo, il modo in cui stiamo reagendo, stia svelando ancora una volta che non abbiamo più il coraggio di accogliere la faticosa realtà della morte. L’evangelico destino del seme. L’ineluttabile vocazione cristiana al fallimento e allo scarto.
Questo può essere il momento per tornare a imparare a morire, per spazzar via l’ingenua retorica dell’eterna primavera. Questo è il momento di tornare a prendere sul serio il tema della Morte. Magari iniziando a lasciare vuoti molti degli spazi occupati. Magari imparando a fare più silenzio.
E’ la prima volta che comunico e spero serva a qualcuno. Grazie per la tua testimonianza che fa riflettere.
Io sento il bisogno di approfondire il valore delle cose che facciamo, piccole e grandi ed in quest’ultimo periodo mi accorgo che tra le molte paure che abbiamo c’è anche quella di vivere, di vivere pienamente, di buttarsi completamente, con passione, a svolgere il proprio compito accogliendo quella che la vita ti propone e, se possibile, cercarre di migliorare la qualità della vita… Se saremo giudicati sulla capacità di trasformare, di amare la vita allora saremo grati se già ora sappiamo giocare la nostra esistenza in possibilità di felicità, di incontri, di relazioni che ci costano, ma sono belle perché ci mostrano la vitalità, la presenza di una vita che è accompagnata e guidata da una forza misteriosa e liberante che ci vuole gioiosi dentro un mondo pacificato e reso più umano.
Scusate la lunghezza. Salute e pace a tutti. Floriano
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Imparare a morire..
Anch’io penso questo.Ho accompagnato alla morte i miei genitori,mia madre è morta straziata dal dolore e dalla disperazione..io impotente ..I medici indifferenti..
Le tue parole le sento mie.vedere nella primavera un alito d’inverno..ma mi chiedo come si fa?l’attaccamento alla vita anche se in sofferenza è forte, la paura dell’annientamento nella morte lo è di più. Non abbiamo fiducia in un Altro che si prenda cura di noi nel dopo..
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Non riesco a fare mie profondamente le tue parole…non ho ancora elaborato..e penso non lo farò mai…il suicidio di mio marito…e sento pugnalate da quanto ho letto…mi devi scusare…mi pento di averlo fatto…non perché siano sbagliate..ma non ne ho ancora gli strumenti..
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Un affettuoso abbraccio, Alessandro!
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La bouganville nella foto esprime molto bene la dicotomia : vita-morte.
Semplicemente e spietatamente è un fiore con le spine.
La natura in questi giorni sta esplodendo, però ,credo che l’inverno non ne sia sopraffatto ma meravigliato , come noi.
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Carissimo don, le tue parole sull’essere pronti alla morte, mi fanno sentire un po smarrita. Sarà il periodo che stiamo vivendo che mi disturba, per la mancanza di rapporti umani in diretta. Ma condivido in generale le tue parole nell’imparare a morire poco alla volta e in silenzio. Un abbraccio e grazie!
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Concordo con quello che hai predicato e sono sulla tua stessa linea di pensiero ma purtroppo è difficile metterlo in pratica xché io che sono della tua generazione è solo da qualche hanno che ho il telefono tac x avere whazzapp e colpa del corona virus ho messo facebuc da 45 giorni x tenermi aggiornata con la scuola!
Grazie ancora come sempre x quello che dici è che fai, un abbraccio
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Ho scoperto per caso il suo sito. La paura della morte la proviamo tutti, per me atea è naturale, per voi invece che credete alla vita eterna è una contraddizione. Che strano…
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