Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
Dare alla luce, a questo credo. Essere stella, solcare la vita da comete, lasciare una scia lenta e cadente, il più possibile luminosa. Una bava lenta di vita.
Sono nella chiesa della natività. Betlemme.
Essere fertili, fecondi, generativi. Solo a questo credo, miracolosa è la vita che nasce. Miracolosa è la follia dell’amore che, alla fine, si convince che valga la pena di dare un figlio alla vita. “Valga la pena”, che modo strano di dire, rendere sensata la gran pena dei giorni, da qualche tempo in parole come queste vi scorgo saggezza. E il profilo curdo (sì curdo, non solo crudo) di ogni minoranza.
Sono nella chiesa della natività e ho caldo e c’è troppa gente e troppa attesa.
Credo solo nei gesti divini di chi avvolge con mani femminili la debolezza. Il resto potete pure riprendervelo, vi aiuterò io stesso ad accartocciare le statue dei nostri dolci presepi (e sorriderò, sarà anche quello un fasciare materiale fragile).
Sono nella chiesa della natività e l’unica cosa che mi vien da fotografare è un sacco da cantiere, lavori in corso. Mi sembra di una bellezza struggente. Lo credo davvero. È la cosa che oggi, qui, sento più sacra.
Tenetevi tutto, portatevi via il natale e pure i crocifissi nelle scuole se li volete, tanto lui nasce, ogni volta che la vita trova mani deponenti. Come quando si lascia andare piano un figlio nella mangiatoia, oppure a peso morto nel sepolcro. Come quando ci si lascia andare, come nel fare l’amore, unico cantiere che desidero mantenere aperto.
Prendetevi tutto, ma non mettetemi a posto, non trovatemi un posto, non lo voglio, sarebbe la morte. Non c’è posto che possa contenere la Grazia. Solo il corpo d’uomo può, e infatti non è posto ma riflesso.
Sono nella chiesa della natività, Betlemme. Tra poco esco.