Condannati a vivere 25 Tempo Ordinario C

i care

foto: Crocetta, panca “I CARE” opera di Gino Fogola

Condannati a vivere

XXV domenica del Tempo Ordinario C (Luca 16,1-13)

 

E noi lo vorremmo punito l’amministratore disonesto. Spinto contro il muro, costretto a umiliarsi per aver tradito la fiducia del divino amministratore celeste.

O almeno un pentimento, un qualsiasi tipo di pentimento, ci saremmo fatti bastare anche una di quelle confessioni capaci di rimettere le cose al loro posto, che le parole della prima lettura di Amos sono chiare, Dio non dimentica le ingiustizie! L’amministratore avrebbe dovuto chiedere perdono, ridare il maltolto e l’uomo mostrarsi oltre che ricco anche buono, praticamente Dio.

E invece no. La parabola di oggi sembra scritta appositamente per darci fastidio, per non farsi capire, vien voglia di arrivare in fondo per poter voltare pagina in fretta. Perché è una parabola, e il perdono e il pentimento invece no, quelli devono essere cronaca, vita concreta e mica parabole. Perché la parabola è uno schiaffo, con le parabole bisogna muoversi cauti, sono scritte per lasciarci disorientati, sono scritte per farci perdere l’orientamento e costringerci a guardare il mondo da un punto di vista nuovo.

E allora avanti, ma con calma.

La prima cosa da capire è che se Gesù in modo così chiaro e deciso si mette a lodare l’amministratore disonesto è per darci da subito un messaggio chiaro: non è una pagina che parla di morale. Gesù è così paradossale nel suo esempio che ci sta dicendo: sposta la tua attenzione altrove, lascia stare per questa volta il giusto e lo sbagliato, non è questione di comportamento, non è questione etica, volgi lo sguardo altrove!

 Nemmeno sul fatto che l’amministratore disonesto sperperi averi non suoi, non guardare lì, anche se ti viene automatico, il vangelo non è moralista mai, oggi ancor meno. Dello sperpero, oggi, non gli importa nulla. Guardare altrove, la parabola è uno schiaffo.

Fermati invece nel cuore del dramma: un uomo di colpo perde tutto. Se l’amministratore non può più amministrare quello che perde è: tutto. Perde ciò che ha e ciò che è, perde la propria identità, perde se stesso. E questa è la prima grande provocazione del testo: “i figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce”, “avveduti” dice una traduzione letterale dal testo greco che ho trovato più interessante, e non “scaltri” che scaltro ha in sé qualcosa di negativo, invece no, Gesù loda la saggezza dell’amministratore perché gli serve da esempio per dire che occorre vivere così, radicalmente, tutto o niente. Che la vita è come l’Amore, o tutto o niente, non ci si accontenta mai di meno, non si può.

Avere fede non è aggiungere il “pezzo sacro” alla compilation dell’ordinario, è invece saper riconoscere che il Tutto batte sempre in Ogni cosa. Bisogna saperlo ascoltare.

Gesù non sta scrivendo un trattato di buoni comportamenti, in questa pagina ci sta chiedendo se il nostro rapporto con il Sacro della vita è totalizzante. Totalizzante significa che tutto, dal rapporto con il divino, al rapporto con gli uomini, con le cose, con la natura, tutto o è espressione del Mistero dell’Amore o non è. Ci sta provocando a chiederci: ma senza il rapporto con il Padre tu vivresti ancora o ti sentiresti orfano della casa come l’amministratore disonesto? È uno schiaffo, non si discute.

L’amministratore sarà quindi disonesto però è lucido, e questa pagina è un elogio alla lucidità dell’uomo che capisce subito che senza la fiducia dell’uomo ricco lui non è più nessuno, diventa niente. Così lucido che riesce a fare una diagnosi spietata di se stesso senza sconti: “zappare non ne ho la forza, mendicare mi vergogno”, non sarà un esempio di limpidezza morale (e lo ripeto, non è quello che Gesù vuole mostrare) ma quanti anni servono a un uomo per arrivare a riconoscere con tale chirurgica perfezione i propri limiti? C’è tanta saggezza in questa analisi della propria storia!

È chiaro che Gesù non parla di onestà e di perdono, non lo fa oggi, perché l’attenzione sarebbe inevitabilmente andata in quella direzione invece in ambito strettamente morale non mette niente di attraente per farci concentrare su questo: totalità dell’esperienza di fede e lucidità di analisi della propria storia.

E il bisogno di avere un posto, a qualsiasi costo, anche usando metodi criminali perché il vero bisogno di ognuno di noi è che qualcuno ci accolga in casa sua, il vero dramma è non avere casa, non essere di nessuno. E l’amministratore questo lo ha capito bene. E usa qualsiasi mezzo per non rimanere per strada.

La vita va vissuta così, secondo il vangelo, in modo feroce, totalizzante, estremo, fino alla fine, costi quel che costi. La vita non è un passatempo da riempire di vuoti giri di parole, la vita non è un libro di buone maniere, non una raccolta di pensieri edificanti, non una summa di grandi idee: la vita è cercare di essere veri, è giocare il tutto per tutto, la vita siamo noi, è la nostra identità, è ciò che siamo, non è lo sfondo su cui possiamo decidere quanto e come muoverci, la vita è tutto.

Ecco perché “chi è fedele in cose di poco conto è fedele anche in cose importanti”, perché le cose di poco conto non esistono, ogni cosa, anche la più minima, se vissuta con verità, pienezza, amore mi parla del Tutto anzi, per dirla meglio, in ogni cosa, anche minima, si parla di noi, si decide di noi, ci siamo noi. In ogni cosa. E questo è affascinante e terribile.

Tenendo conto che al mondo non abbiamo scelto noi di venirci.

Alla fine questa pagina di vangelo, come tante altre volte, vorremmo finisse presto, vorremmo finisse prima perché ci ricorda che siamo condannati a vivere, e che Gesù non propone consolanti scorciatoie: visto che siamo al mondo ci chiede di vivere, di vivere davvero prendendo tutto, giocando tutto, fino in fondo costi quel che costi, la vita intera.

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