Morire con i piedi (esercizi di scrittura collettiva sulla buona morte)

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foto: Patagonia, in viaggio con Enrico

Morire con i piedi

Oggi è il giorno di San Giuseppe, mi pare sia il protettore per la buona morte. E così mi è venuto in mente un vecchio mio progetto, oltre all’autobiografia dettata dalle morti che mi hanno cambiato la vita, vorrei provare a riprendere quelle tradizioni abbandonate da tempo, quelle pratiche per la buona morte che non sono più di moda. Non le conosco, ne ho sentito parlare, mi incuriosiscono. Sembrano così fuori dal tempo. Ecco, forse sto proprio cercando qualcosa che stia fuori dal tempo, cioè che non si lasci trascinare dal vortice dell’immediato. Stare fuori dal tempo, per vedere le due o tre cose che servono per non farsi travolgere.

 Volevo riprendere le pratiche o le preghiere per la buona morte per applicarle alla Chiesa che conosco, a questo modo di fare chiesa che non parla più, non respira, non ha battito cardiaco. Modalità di chiesa che sta morendo, ma che sta morendo male. Anche in questi giorni, convulsioni senza senso tra chi si appella a un Dio dei miracoli e chi sta zitto. Ma non in silenzio, zitto perché muto, perché non sa cosa dire, perché non si è allenato a trovare gesti, liturgie, parole che sapessero guardare al mistero del morire. Stiamo rincorrendo i social (che improvvisamente son diventati alleati!) ma sui social ripetiamo le modalità svuotate di un tempo, e allora che senso ha? Non sappiamo più guardare negli occhi la morte. Il fallimento. La sconfitta. Abbiamo sprecato troppo tempo nell’animazione degli oratori pensando fosse un modo per rianimare il cristianesimo. Abbiamo trasformato la pastorale in una serie di uffici, un’azienda, non abbiamo saputo camminare a fianco dei ragazzi da padri, siamo stati la loro controllata evasione. Ministri di un cristianesimo che non fa male a nessuno, svuotato del dramma. Senza sangue. Dissanguato, esanime, troppo pulito, indolore.

Forse il dramma di questi giorni che arriva come colpo tra le costole può aiutarci a riaprire gli occhi.

Serve una terza vita, non possiamo tornare al miracolismo medievale, non possiamo continuare a replicare pastorali insipide. Serve una terza via.

Ricordo che tanti anni fa, in uno scambio di opinioni tra giovani preti, dissi che sarebbe servita una catastrofe a rianimare i nostri oratori. Mi presero in giro. Forse avevano ragione ma quello che volevo dire non era augurar sciagure era che ero stufo di gingillarmi a scegliere il tema dei Centri Estivi, che il clima di ricreazione infinita dei nostri oratori mi stava nauseando, che me li ricordavo io i morti e il dolore e la ricerca di senso che animava il mio essere infermiere…

Fabio era un adolescente quando io ero a Scanzorosciate, giovane prete; Fabio adesso forse mi sta leggendo, chissà se si ricorda, un giorno si avvicina e mi dice “don, basta, ma parli sempre di morte!”. Avevi ragione Fabio, ma è stato il regalo più bello che ti ho fatto sai? Se impari a parlar di morte non hai buttato la tua vita, sai fare i conti con il cuore e con i nervi, con il corpo e con l’anima.

Insomma ste cosa della buona morte mi affascina e allora stamattina decido di navigare su siti che mai avrei pensato di considerare, cattolicesimo di vecchia data, puzza di conservazione, formule antiche, grafiche imbarazzanti. Ma per fortuna la mia ricerca dura poco, trovo subito un sacco di materiale. E allora stamattina comincio: riscrivo per me delle preghiere per la buona morte.  Se qualcuno vuole aiutarmi, riscriviamole insieme. La parte virgolettata è l’originale, il resto è mio. Se volete potete aggiungere, cambiare, riscrivere, scuola di scrittura collettiva sulla morte. Cominciamo da qui:

“Quando i miei piedi, immobili, mi avvertiranno che la mia carriera in questo mondo è presso a finire, misericordioso Gesù, abbiate pietà di me”. (Prima strofa della preghiera per la buona morte trovata in internet)

Ora che i miei piedi stanno, immobili, dammi o Signore la forza di accarezzarli, piano. Un inchino alla parte di me che mi ha sostenuto, una carezza a quelle radici sempre temporanee.

Mi sono stati fedeli, i piedi, sono stati il mio coraggio e la mia fuga, il mio sostegno. E poi, adesso che sono immobili, adesso che non mi portano più da nessuna parte, adesso, posso permettermi di guardarli con tenerezza, come le cose che non sono più utili, come un dipinto, come un’opera d’arte che non serve a niente se non a cantare bellezza.

Li guardo e per la prima volta, adesso che sono immobili, per la prima volta sento le tue carezze, quante volte mi hai lavato i piedi Amata Mia Disperata Ossessione! Quante volte mi hai concesso la follia della ripartenza! Quante volte mi ha permesso di camminare, anche quando fuggivo da te! Si chiama amore mia cara divinità piegata come madre al capezzale dei miei piedi.

I miei piedi, quelli che mi guardano ora, immobili, quelli che mi hanno portato dove il cuore non osava arrivare, che hanno assecondato nelle mie fughe meschine. Quelli che forse hanno anche calpestato qualcuno, ma tu lo sai, non c’è mai stata cattiveria. Tanta paura, quella sì, spero tu non la consideri peccato.

Ora che sono fermi, immobili, Signore, io vorrei ringraziarli per quando abbiamo iniziato, per i primi passi, per tutte le volte che mi sembrava di ricominciare, per tutte le volte che ho imparato da capo a camminare con loro.

Vorrei ringraziarli per le camminate in montagna e per i pellegrinaggi, per quando si muovevano in corsia, per quando salivano i gradini di un altare, per quando oltrepassavano la soglia di una casa dove mi aspettava un malato o un morto. Per le volte che speravano di essere solo accarezzati e mi chiamavano muti da sotto le lenzuola e non capivano il perché di tanto vuoto.

Ora che i miei piedi mi guardano, immobili, vorrei chieder loro scusa, per quando pretendevo da loro danze che non mi appartenevano. E visto che è l’ultima occasione, visto che non c’è più tempo, vorrei chiedere scusa per le scarpe troppo strette, per quando ho indossato contemporaneamente scarpe diverse, per le volte che non ho avuto il coraggio di camminare a piedi nudi, per la paura di ferirli, di ferirmi.

Non pensavo che si cominciasse dai piedi a morire. Da qualche parte bisogna pur cominciare. Si parte a morire dalle radici. I frutti rimangono anche dopo di noi.

Ora che i miei piedi, immobili, mi stanno dicendo che siamo al capolinea vorrei chiedere a loro di avere pietà di me, per le volte che non ho saputo portarli dove il sogno chiedeva, per le volte che non ho capito che le ali non sono più affidabili dei passi. Per le volte che non ho avuto pazienza. Per la mia antica diffidenza alla lentezza, perché da sempre cammino troppo in fretta.

Adesso che sto imparando a morire, e lo sto facendo a partire dai piedi, chiedo perdono per le volte che li ho convinti ad assecondare traiettorie che servivano a mostrare parti di me che non erano me.

Adesso che sto imparando a morire Signore, adesso, i miei piedi sono finalmente immobili, e tu puoi lavarli e accarezzarli con calma, e io finalmente, non oppongo più resistenza. Che sia questo morire? Che sia questo amare?