Gesù si trovava in un luogo a pregare, quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”.
La prima cosa è la solitudine, Gesù pregava da solo. I discepoli stavano a distanza e aspettavano, aspettavano che finisse. Non potevano avvicinarsi. La preghiera era, ed è, innanzitutto, una faccenda di incontro personale.
Quando qualcuno dei Dodici gli chiese “insegnaci a pregare” quello che quell’uomo stava chiedendo al maestro, senza averlo compreso, era di insegnargli il coraggio di stare da soli al cospetto del Signore. Un corpo a corpo. Pregare è difficilissimo perché significa mollare tutto e iniziare la lotta con l’Assoluto. E spesso sembra non succeda niente, come cercare di afferrare il vuoto. A volte la lotta si scioglie in un abbraccio.
Quando pregate, dite: "Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione"».
La seconda cosa è l’essenzialità. Più ancora, la miseria di poche parole. Padre, solo Padre, nemmeno più “nostro” e forse nemmeno ancora “mio”, solo padre. Padre, un nome che sembra un chiodo piantato nel legno a cui appendere solo le cose indispensabili. Un padre che non è nei cieli, che non è collocato in nessun luogo preciso ma che chiede solo d’essere santificato e a noi che si sia disposti a far accadere il Regno. Punto. Salmo disidratato.
Una preghiera, quella riportata dall’evangelista Luca, che non ci permette nemmeno di illuderci di essere capaci di fare la sua volontà, questo pezzo non c’è. Una preghiera scippata dello spazio, scomparso è il cielo e così la terra. Però il pane sì, quello si deve chiedere, quello serve, è essenziale, vitale. Così io mi chiedo se la mia spiritualità così piena di parole e di idee abbia ancora l’urgenza del pane.
E poi magari perdona anche i nostri peccati e aiutaci a perdonare gli altri. Tutto qui. A chiudere la supplica: non lasciarci in balia delle tentazioni. Troppo poco? A me piace questa schiettezza. Tutto ridotto all’osso. Quello che posso lo posso fare solo sulla mia storia, poi magari pensiamo alle guerre nel mondo, ci scandalizziamo per la crudeltà in Palestina, esponiamo bandiere e facciamo marce per la pace e mandiamo video per condividere, per implorare la fine della guerra, tutto giusto, ma prima, prima, se prendo in mano questa pagina di Vangelo, a me vien da guardare nel territorio orrendo che sono io. La mia violenza. la mia incapacità di comunicazione, le mie rabbie per delle scemenze. Se entro in questa pagina e mi prendo davvero in mano nelle cose più basilari io non mi sento più tanto migliore di chi uccide un innocente. E comunque mi passa la voglia di moltiplicare gesti che non mi costano niente e che, in fondo, mi fanno passare per una persona buona, giusta, corretta, sensibile e informata. Io non oso nemmeno pensare a cosa farei se mi ammazzassero un figlio. Quello che posso è posare la mia malvagità nell’orto degli Ulivi della mia segreta preghiera, nello sguardo di Dio. Solo lì. E poi? Che io sappia costruire un microscopico pezzo del Regno qui, in questo posto inutile che abito e che io santifichi in me il Suo nome, qui e adesso, in questo poco che vivo, con i miei mezzi poveri e insufficienti, con la mia miseria, con la mia inutilità.
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Terza cosa: Gesù ci propone un Dio a cui chiedere. Sfacciatamente chiedere. Un amico da importunare, un amico che non è nemmeno buono ma che ci risponderà solo per sfinimento. Sento tanta ironia in Gesù. Come se parlasse di me. Come se volesse sporcare ancor di più la preghiera, farla razzolare tra le mie miserie. Come se mi chiedesse di non lucidare le formule ma di portare la vita vera, quella che ci appesantisce, quella che non è per nulla perfetta.
Così mi ritrovo a chiedermi quali sono i deludenti bisogni che mi porto nel cuore. Non le cose politicamente corrette che leggiamo nei foglietti prestampati della messa domenicale, non la pace nel mondo e la lotta al cambiamento climatico ma quelle cose che mi feriscono da vicino. Una lite con il vicino, l’incomprensione con gli amici, la paura di non essere all'altezza, gli errori che sto facendo in campo educativo, le volte che mi perdo nei miei inutili pensieri, le presunzioni di verità, la quantità astronomica di scuse che mi racconto pur di non prendere in mano schiettamente la mia vita. Ecco, leggo questa pagina di Vangelo e mi pare che Cristo mi sbatta contro la mia vita, per quello che è, spalle al muro contro la mia banalità. Poi magari pensiamo alla pace nel mondo. O, meglio ancora, in questa grande connessione del Creato la verità fatta su me stesso, su questa parte minima del tutto, riverbera poi luce su ogni cosa. Certo, serve conversione, ed è una lotta durissima che si può fare solo personalmente. Per me e per tutto il Creato.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quarta cosa: chiedere, cercare e bussare. E mentre ascolto mi accorgo che la mia preghiera si è fatta sempre più borghese, raffinata ma essenzialmente vuota, elegante ed esageratamente corretta. Anemica perché ricca di sé. Il povero chiede, il povero cerca, il povero bussa. Non c’è scampo, non mi sta chiedendo di ascoltare, di farmi trovare o di essere disposto ad aprire la porta di casa mia, non mi sta chiedendo di essere buono, quella è roba per chi è pronto a dare risposte e offrire servizi, quella è roba per ricchi, Gesù mi sta supplicando di avere ancora fame. Mi sta chiedendo se ho ancora freddo, se ho ancora paura… e se non ne ho è impossibile pregare.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!». Quinta cosa: io sono cattivo. Nella preghiera possiamo dircelo, io e Dio possiamo confessarcelo. Nessuna finzione, almeno qui. La preghiera stana la mia cattiveria. Ma svela anche il paradosso del padre che mi chiede di riconoscere che lui mi ha sempre dato cose buone, anche quelle che io vedevo come serpi o scorpioni. Forse la preghiera è tutta qui, abbassare ogni cosa a livello del terreno, farsi trovare lì. Senza illudersi di essere buoni. Lasciare che Dio si rotoli con me nel mio fango. Schiettamente. Salvandomi.