I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme perché, come il succedersi delle stagioni così accade il sacro, nella fedele ripetizione delle primavere, ogni anno, in un perpetuo rito che solo ad occhi tristi appare identico
Quando ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa con questo enigma accanto con questo figlio misterioso che, come tutti i figli, è stato forse annunciato, da un angelo, o forse no, dodici anni di miracolosa normalità di ossa muscoli e di un cuore uguale a tanti altri dodici anni di ginocchia sbucciate e lacrime e giochi inutili nel cortile, dodici anni che avevano confuso i ricordi, dodici anni in cui i messaggeri avevano taciuto. Un muro tra terra e cielo, inutile interrogare l’Infinito,
così questo ragazzo si portava addosso la solitudine, quella di chi non riesce a capire il perché del crescergli attorno, come gramigna, tanta muta feroce attesa.
Serviva frantumare la consuetudine, serviva finalmente perderlo, non c’era alternativa, così è la fede, che non procede mai per accumulo ma per smarrimenti per morti improvvise
trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, forse con la delusione di aver visto solo l’ordinario ripetersi forse semplicemente abituati lasciarono Gesù a Gerusalemme
senza che i genitori se ne accorgessero
Sì, si smette semplicemente di accorgersi. Si smette di accorgersi dell’infinita potenza nelle piccole cose, si smette di accorgersi che è il reale a svelare l’Invisibile si smette di accorgersi della vita che canta la sua fedeltà al Creatore
(e forse morire è solo questo smettere di accorgersi, è scivolare nell’abitudine, così finiscono anche gli amori).
Serviva rompere il cuore trapassarlo: credendo che fosse nella comitiva fecero una giornata di viaggio dimenticandolo, dandolo per scontato, accontentandosi di credere di sapere già tutto di lui. Credendo di non aver più bisogno di sorprendersi.
poi si misero a cercarlo tra i parenti perché è lì che cerchiamo le risposte tra ciò che già conosciamo, tra i libri già letti, le decisioni già prese, le cose già sperimentate, invece l’Inedito chiede di tornare da capo e di confessare, al Tempio, di averlo smarrito.
Di non sapere più nulla di lui, di aver creduto di credere, di dover deludere la sacramentale litania delle feste, di doversi presentarsi a mani nude al tempio confessando di non sapere più nulla, e di non averlo mai nemmeno capito forse d’averlo solo partorito.
E così Dio diventa finalmente un estraneo e noi pellegrini smarriti e forse la nostra iniziazione cristiana serve solo a questo: a portarci allo smarrimento.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio e fu come morire tre giorni, le statuine del presepe in frantumi i cocci ovunque, lì, sul pavimento, ai piedi di un irriconoscibile che non insegnava ma che seduto in mezzo ai maestri li ascoltava e li interrogava e finalmente lo stupore, sulle labbra di Maria, che ebbe conferma del dolore della fede (sì, del dramma a cui viene crocifisso chi decide di affidarsi)
Perché ci hai fatto questo? Perché ancora ci costringi a cercarti? Perché ti nascondi? Perché ingravidare il ventre delle nostre innocenze per poi umiliarci, abbandonarci? Perché ci hai fatto questo? Obbligandoci a una fede che sempre ci riduce a perenni cercatori, che ci mortifica riducendoci al rango di mendicanti, perché questa condanna ad avere le mani perennemente vuote? Perché ci costringi a parlare di te solo per assenza? Perché continui a farci questo, impedendo di poterti esporre, di poterti spiegare, impedendo di possederti, impedendo di dire al mondo che ti abbiamo tra noi? Perché scappi, perché ti nascondi?
Perché continui a rimanere in silenzio? Come fossimo sempre a Nazaret come tu fossi un ordigno pronto ad esplodere come tu fossi la nostra salvezza o la nostra rovina o la nostra onnipresente pericolosa mancanza…?