In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. (Giovanni 6)
E mentre ogni cosa, in ogni momento, scorre all’altra riva, (anche il giorno di ieri che è passato, o queste mie parole che già fioriscono in memoria) la folla non trova parole, invece, per riconoscere d’esser fatta d’esodo.
Così Tu dissemini segni a ferire i nostri miseri bisogni, consegni cammini a scardinare l’immobile pesantezza delle nostre infermità, sfidi faraoni, nella speranza che i nostri occhi si aprano a scoprire che nulla abbiamo da fare, se non traghettare ad altra riva fino all’ultima briciola di ciò che siamo.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Nemmeno Filippo, anche lui non chiede manna, non ricorda, non osa credere. Anche lui come noi sembra abbia timore forse di riconoscersi parte di una storia divina. Sacra. Che crede passata. Anche lui non vede che ciò che è stato ancora è, che continuo è il biblico compiersi degli eventi, che siamo testo sacro, e che in noi tu riscrivi la Tua promessa eterna d’alleanza.
Un demone, di certo, avrebbe saputo consigliarti, in forma di tentazione, di tramutare le pietre in pane lui che la Bibbia la sapeva citare. Lui che ci credeva.
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?».
Andrea pronuncia il simbolo quel sette che è già pienezza, e dice, forse nell’inconsapevole lucidità del rito, che nel giorno dell’uomo ha fatto già irruzione la pienezza divina. Andrea almeno conosce, ma ancora non basta.
Così tu implori che in noi rimanga almeno l’ombra di un ragazzino fatto di nuvole, leggero e sognatore, con i pani d’orzo e almeno due pesci. Così tu speri che in noi rimanga almeno il ricordo di quando stavamo in piedi, sorridendo, saccheggiati per amore, convinti che il nostro tutto bastasse a sfamare l’amore dell’universo. Così tu cerchi in noi l’ingenua e folle resistenza ad ogni tipo di calcolo.
Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Intanto hai steso erba sotto i nostri piedi, il giardino è quasi fiorito, non resta che sedersi, e lasciare che ogni cosa sia. Semplicemente sia, pacificata con sé stessa, anche la morte finalmente a farsi seme.
Non resta che respirare e lasciarsi fare, non resta che resistere alla tentazione della mormorazione, non resta che lasciar essere le cose. E le persone. E anche noi senza creder di dover essere altra cosa.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
Basta essere educati. Dire grazie. Graziosi, graziati. Così si moltiplica la vita. Per grazia ricevuta.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
E mentre tutto sfila nell’ombra della sera e la folla ancora non comprende cercando una fede regale, implorando l’ennesimo faraone,
e mentre Cristo sparisce tra le pieghe del silenzio,
dodici ceste rimangono, come corpi trasformati in pane, e con loro i discepoli lasciati soli al tramonto ad osservare quel che resta e quel che sarà di loro, tranello d’amore, che inizino a capire il loro possibile destino, che il vero miracolo è d’esser trasformati in pane, farsi cesta dell’avanzare del mondo all’altra riva, eucaristico segno, per questo esodo che chiamiamo vita.