E lancia ustionanti baci

Trinità anno B

 

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea

Finalmente sentirsi Undici, alla fine finalmente accettare d’essere mancanti, e sorridere amaramente della tanta fatica buttata nel volerci difendere dalla vulnerabilità. La verità è di chi ha un buco nel cuore che chiede di essere riempito, è di chi sconta una mancanza, di chi è già pronto a salpare, ma non per coraggio, per nostalgia.

Trafitti dagli eventi, ci hai strappato un pezzo di cuore, per nostro tradimento, camminiamo quindi sciancati come Giacobbe, vulnerabili come Giuda, che non è colui che manca, è colui che siamo.

Se siamo Undici è perché manca in noi, finalmente, l’arroganza dei perfetti. Non abbiamo più la sicurezza di Pietro, l’entusiasmo di chi aveva giurato di morire per te, l’esuberanza di chi lottava per i primi posti, la stupidità di chi allontanava i bambini dal tuo abbraccio, non abbiamo più bisogno nemmeno di difenderti dai poveri, da chi non cui ci sembra all’altezza del tuo pensiero, ci siamo perfino sbarazzati da quella strana idea di purezza da cui non riuscivamo a liberarci, non vogliamo più tenere lontano chi non ti capisce, perché non ti abbiamo capito noi. Perché ora i poveri siamo noi. E tu, per fortuna, continui a non ti difenderti.

Abbiamo perso la saccenza di chi era sicuro di conoscerti solo per aver pronunciato un “sì” dalla riva di un lago, ormai sappiamo che tutta quella retorica sapeva anche di fuga. Volevamo un’altra vita.

Torneremo Dodici certo, come Chiesa, il simbolo deve sempre essere ricomposto, ma rimarremo macerie, certezze frantumate, e ringrazieremo Giuda per averci aperto gli occhi.

Se ci capiterà ancora l’illusione di sentirci perfetti, e capiterà, frantumaci senza pietà. Sappiamo che la tentazione è un cerchio, una belva accovacciata sulla soglia.

Tornare in Galilea è tornare a casa. Non siamo fatti per Gerusalemme, il potere disinnesca la profezia, chi è rimasto là dovrà rinunciare al Vangelo, chi crede di poter inventare strutture alternative cadrà negli stessi errori, meglio tornare in Galilea. Siamo povera gente, inabile alla sapienza, disadattata per il mondo. Tornare in Galilea è l’unica possibilità per non essere spazzati via, il potere omologa e annienta. Torneremo in Galilea per non farci scippare dal privilegio della povertà, per farci guardare come si guardano i falliti. Sarà un tornare finalmente in noi, probabilmente per la prima volta, sicuramente con una consapevolezza nuova, ti avevamo seguito perché non ci piaceva il mostro volto, troppo ordinario, perché non ci amavamo e ci sentivamo sbagliati. Ora torniamo e non è cambiato nulla, stessi difetti, forse accentuati dagli eventi, solo abbiamo imparato ad amarci. A lasciarci amare da te in noi. E questo ci pare possa chiamarsi Vangelo.

 

sul monte che Gesù aveva loro indicato.

Non basta la Galilea, servono i suoi monti, spazi sacri adibiti alla relazione, più ancora, serve che tu ci indichi il punto esatto. C’è sempre un monte nel cuore di ogni evento, c’è sempre un monte da scalare per farsi battezzare dalle Beatitudini, c’è sempre un monte anche dentro il dramma, è il luogo dove possiamo fare esperienza della tua fedeltà. Non resta che fidarsi. Ed ascoltare con attenzione la vita, scostare il superfluo e arrendersi, tu ci chiami da ogni cosa, sussurri vita da ogni piega.

 

Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.

Vederti, prostrarsi, dubitare. Ancora una volta capovolgi l’ordine delle cose. Non può credere un cuore che decide di non vedere. “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”, dicevi. Volerti vedere è la condizione. Vederti nella manifestazione del mondo, nel profilo delle cose, nel mistero delle parole e nell’incanto delle note. Vederti in chi nasce e in chi muore. Vederti in ogni brandello di realtà. Ogni cosa è viva per cantare la tua presenza. Ci vuole coraggio, lo sappiamo, ed è faticoso, si cammina trafitti dalla tua Presenza, si piange per un niente, ci si commuove per un sorriso, si rischia di morire per una violenza subita, senza corazze la strada è impervia e pericolosa. Ferisce.

A volte anche la bellezza annichilisce, e non si regge tanta tua onnipotente presenza, così non resta che piegare le ginocchia. Le spalle non reggono il peso del miracolo, ci si prostra sconfitti dal troppo amore. Ci si vergogna anche un po’, non ci si sente all’altezza. E alla fine si può finalmente anche dubitare, anzi si deve, per non dare nulla per scontato, per continuare a cercarti, per non smettere di stupirsi.

 

Gesù si avvicinò e disse loro…

Credevamo di dover conquistare il mondo, siamo stati conquistati. Tu ti fai vicino. Il nostro dubbio ti rende prossimo. Sei il pane dell’affamato, la moneta al nostro mendicare, il bacio a risanare. Tu sei colui che avvicina il cielo alla terra, tu sei il roveto che arde, e lancia ustionanti baci. Tu battezzi nel fuoco la nostra pochezza.

 

«A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

L’unico potere è quello di battezzare. Immergere nella logica divina le persone che incontriamo. Il cielo ha ormai fecondato la terra, la Trinità ha preso casa nel cuore delle nostre miserie. Non resta che lasciarsi andare, e fare discepoli, svelare che la vita rivela il suo senso solo in scia alla tua traiettoria. Non resta che entrare nella relazione d’Amore Trinitaria, non resta che cedere e finalmente respirarti. Non resta che lasciarsi andare a te, in un flusso ininterrotto d’amore che ha già riempito ogni istante fino alla fine del mondo. Non resta che lasciarsi battezzare nell’Amore, che è l’unico volto di Dio, smettere di speculare sulla tua possibile esistenza e lasciarti essere in noi.