E non attendere altro

(Luca 2,22-40)

Santa famiglia anno B 2023

Come si fa ad aspettare una vita intera e rimanere comunque giusti? Come si fa a non smarrire la fiducia, la speranza, la devozione? Come si fa, Simeone, non dico a credere, che credere è folgorante, è un amore che ti avvolge, è lo strappo dato al cuore per poter essere gettato nel firmamento, no, credere non è difficile, è aspettare, aspettare una vita intera, aspettare presidiando riti antichi e forse anche sfiniti, questo mi pare eroico, come si fa a non smarrirla, dopo un po’, la fede? Simeone come si fa a stare, semplicemente stare nel tempio? Diventare una colonna a cui si appoggiano le persone stanche, essere il pavimento sacro su cui trascinano i piedi i peccatori in cerca di perdono, volteggiare profumando come l’incenso oppure bruciare, logorando le fibre del tuo copro vecchio e stanco, al ritmo impietoso delle candele sui candelabri, come si fa a diventare attesa?

Non ti è mai venuto il dubbio di averla buttata al vento la tua vita, di averla sprecata? Quando ogni giorno quello che accadeva era sempre troppo simile a quello già accaduto? O, peggio, quando incontravi qualcuno che giurava di aver tra le mani la novità, la rivoluzione, la svolta, la luce definitiva? Come hai fatto a sopravvivere alle continue inutili promesse di novità? Come hai fatto a resistere quando vedevi sfilare le stagioni, quando ormai avevi imparato a memoria ogni rigo della divina liturgia? Non hai mai pensato di maledire quel Dio rapace che non ti lasciava libero di lasciar battere altrove il tuo cuore? O il giorno che ti sei svegliato e hai sentito di essere definitivamente vecchio, e che Lui, il Messia, ancora non si era fatto vedere, e tu hai capito che non avresti comunque potuto vederne gli effetti, non qui, non per te. Questo mi affascina Simeone, come si fa a credere con tanta gratuità, quasi che le ricadute pratiche dell’amore divino non ti fossero necessarie, a te, in fondo, bastava mettere gli occhi in Lui, anche solo per un momento, per un lampo, per te il resto sarebbe rimasto resto, eccedenza non indispensabile al tuo spirito forgiato nell’essenziale.

Come hai fatto Simeone? Come hai fatto a lasciarti invadere dalla Spirito e a non morire di stupore quando hai visto, con chiarezza profetica, che il Messia era solo un bambino? Un bambino che tu non avresti mai sentito parlare, che non avrebbe fatto miracoli per te, che non avrebbe spezzato pani in tua presenza, che non avresti potuto seguire e nemmeno difendere, che non si sarebbe potuto mai ricordare di te e del tuo abbraccio sacro?  

Come si fa a credere che la verità di una vita intera sia sigillata dalla vaga promessa di vita racchiusa in un corpo di fanciullo bisognoso di cure? Io non lo so, provo a mettermi nei tuoi panni, provo ad accarezzare le tue dita vecchie e a commuovermi per la fatica che hai nelle braccia. Provo a risvegliare anche in me un tentativo di benedizione pari al tuo, provo a benedire Dio per la vita passata, per quando si è lasciata prendere tra le braccia come stai facendo adesso tu con questo bambino. Forse essere giusti e pii non è altro che tenere viva la fiducia di questo neonato, la sua radicale inutilità, il suo non opporsi ai giochi del destino, il suo farsi salvare dal coraggio di Giuseppe o dalla premura di Maria, forse piangere di gioia e di fede come stai facendo tu Simeone non è altro che riconoscere che la parte migliore di noi è quella che è sempre rimasta bambina, cioè lontana da ogni forma di potere, libera dalle imposizioni, lontana delle logiche di dominio. E nascosta. Forse questo bambino che quasi scompare tra le tue mani nodose ti ricorda quel che sei stato tu, nascosto sotto i paramenti sacri, immerso in uno scialle di preghiere, arrotolato tra le parole della Torah, deposto in quella mangiatoia che è il Tempio, luogo aperto a tutti gli affamati dell’Eterno.

Ora puoi lasciare Signore che il tuo servo vada, divina dimissione, ora la vita non ha più senso per te, non qui, non dopo aver abbracciato Cristo. Ora puoi andare, chiedi permesso, o forse no, forse lo stai implorando il tuo Dio, lo stai pregando che ti lasci morire, che ti prenda con sé. Che se è stato difficile vivere nella perenne misteriosa attesa del Suo arrivo ora, senza aver più lui da attendere, vivere diventa semplicemente impossibile. Simeone tu lo sai che la morte non è condanna ma è compimento e libertà, per questo sei giusto e pio. Che si attende per una vita Dio solo per convincersi finalmente che è Lui ad attendere noi. E quindi abbandonarsi nelle sue braccia.

A Maria lasciasti parole di contraddizione, la resurrezione prevede la caduta e solo chi è disposto alla contraddizione potrà lasciarsi ustionare dalla lama incandescente della Parola. E così, prima di lasciare, trafiggevi l’anima della Vergine. Alla tenerezza dell’abbraccio dovevi opporre subito la violenza della spada, sangue da subito, a tracciare i sentieri della salvezza. Così è la vita, così è il Vangelo, dimenticare la violenza è dissanguare le arterie della speranza.   

Anna, vicino a te, è la vedovanza, simbolica alchimia di numeri, sette di matrimonio, ottantaquattro la durata dei suoi anni, riempiti di una pienezza improvvisa e poi svuotati, risucchiata anche lei nel Tempio, forse per mettersi al riparo da un’umana consolazione che lei non voleva. Anna che è rimasta in quel vuoto, come anticipo del sepolcro svuotato dopo la morte e resurrezione che vivrà quel bambino che ora si lascia crocifiggere di baci. Anna che non lasciava mai il tempio, per non lasciare se stessa, per non perdersi, per non smarrire la nostalgia di Dio. Anna che digiunava per evitare pienezze anche solo parziali, Anna che pregava, di notte, quando il sole non c’è, quando anche l’alba sembra presagio di una pienezza di luce che non si riesce a sostenere. Anna la vuota, Anna l’inconsolabile, Anna la donna che dopo aver conosciuto l’amore non vuole aspettare altro che l’amore.

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 2,22-40
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret.
Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.