(Isaia e Marco 13)
I Avvento anno B 2023
Che tu te ne sia andato lasciandomi tra le dita solo polvere di una promessa di ritorno, che tu sia sempre e per sempre il mio padrone e io cocciutamente il tuo servo stanco, che io non faccia altro che vegliare, scostare le tende dell’apparente conosciuto, spolpare ogni amicizia per leccarne l’osso e saggiarne la consistenza divina, che io non faccia altro che torturare ogni parola, disinnescare ogni illusione, minacciare ogni risposta, senza illudermi più, senza illudermi mai, che nessuna cosa che accade potrà mai riempirmi, che io corra il rischio di sembrare cinico rispetto a una società che non può cambiare perché non lo vuole, a una chiesa che vorrebbe cambiare ma non può (a patto di non trafiggersi mortalmente per amore), che io non veda più in ogni notte che mi scava la carne del cuore una minaccia ma sempre e solo una possibilità, che io creda che l’unica arma per costringerti a tornare sia di azzannare il lembo del tuo mantello come un cane. Che tutto questo accada ogni giorno, tu lo sai, non mi mette al sicuro da me.
Che io ancora non sappia quando tu tornerai, e neppure lo voglia sapere, così da poter continuare a torturare il senso di ogni sera, di ogni scoccare di mezzanotte, di ogni canto del gallo, di ogni mattina per fargli confessare Te, mio atteso improvviso definitivo destino, affilato come lama, a ghigliottinare finalmente le mie giornate. Neppure questo basta a mettermi al sicuro da me e dalle mie debolezze.
Ma chiamarti redentore, perché solo tu puoi venire a difendermi da me, quando mi accuso di averla sprecata la vita, quando mi trovo a non amare i margini amari dell’inutilità, quando non mi sento capace di fare niente e lascio scorrere ogni istante godendo della sua definitività.
E camminare lontano dalle tue vie solo per il gusto di vederti dietro di me, goffo, affamato, stremato, per riportarmi a casa, divinità randagia per amore.
E vederti ritornare sempre, sempre e solo in nome di quell’amore che solo in te cessa di essere vago sentimento per diventare linfa e sangue e materia vivente.
E guardare il cielo implorando che si strappi, così da smascherare in una pioggia apocalittica di stelle tutte le teorie che come scialle di illusioni tentano di nascondere i miei peccati.
E sentire il sussulto dei monti, veder trasalire le rocce, spaccare le lastre dei sepolcri e sbriciolare i marmi e vedere se finalmente potrò mettere i miei occhi piangenti negli occhi dei morti.
E sostenere nelle cose terribili la tua presenza e non cercare colpevoli ma salvatori, e ricordare che io, proprio io, più volte, ho giurato di averti visto e sentito e perfino parlato. Io, proprio io, in una continua tortura di testimonianze, costretto ad ammetterti presente a me più di quanto lo sia stato io a me stesso.
E riconoscere che sei nel cuore dei giusti più che in quello dei saccenti, dei buoni più che in quello dei teologi, dei miti più che in quello dei predicatori, dei matti più che in quello degli intellettuali.
E sorridere di te che ancora sai arrabbiarti perché proprio non riesci a comprendere come mai ci allontaniamo ancora da te e ci ribelliamo alla possibilità rivoluzionaria di essere divini. Tu che ingenuamente sembra non voglia accettare la nostra bassezza.
E tornare sempre a te che ti ostini a voler fasciare le ferite del creato con il panno immondo delle nostre promesse vuote. Tu che sembri non voler accettare che siamo solo foglie che il vento finalmente spazzerà via.
E così godere, ancora, sempre più stupito di te, che non smetti di sopportare la mia impertinenza di pover’uomo che sa solo battere forsennatamente su una tastiera i suoi dubbi, che emette sempre la stessa melodia noiosa e muta che non partorisce spartito. Mentre tu sinfoneggi il tuo amore.
Ma così proprio tu mi concedi ancora di potermi risvegliare, nel pieno della notte, solo per potermi stringere a te, io povera argilla in cerca di una forma, e di mani che sappiano sognarla, e arriverà, te lo prometto, il girono in cui tutto questo mi basterà.
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 13,33-37
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
Dal libro del profeta Isaìa
Is 63,16b-17.19b; 64,2-7
Tu, Signore, sei nostro padre,
da sempre ti chiami nostro redentore.
Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore, cosi che non ti tema?
Ritorna per amore dei tuoi servi,
per amore delle tribù, tua eredità.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
Davanti a te sussulterebbero i monti.
Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,
tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti.
Mai si udì parlare da tempi lontani,
orecchio non ha sentito,
occhio non ha visto
che un Dio, fuori di te,
abbia fatto tanto per chi confida in lui.
Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia
e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato
contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli.
Siamo divenuti tutti come una cosa impura,
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia;
tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
Nessuno invocava il tuo nome,
nessuno si risvegliava per stringersi a te;
perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
ci avevi messo in balìa della nostra iniquità.
Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci plasma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.