Ed egli il volto indurì tredicesima domenica tempo ordinario C

sfumature di Crocetta 25.6.22
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9,51-62

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

Ed egli il volto indurì

(Luce 9,51-62)

Tredicesima domenica Tempo Ordinario C

 

Ed egli il volto indurì per andare a Gerusalemme…

non è solo una “ferma decisione” come riportato dalla traduzione italiana del vangelo di oggi, letteralmente è la vita affrontata a muso duro, è la profetica capacità di irrigidire i lineamenti, è la faccia che diventa prua di nave rompighiaccio, è la profezia del rifiuto che prende casa tra gli occhi, sono labbra che si morderanno a sangue pur di non tradire la scelta, è la fronte a farsi muro, pietre incastrate ad arginare lo sconforto dell’abbandono.

 

Non è solo una ferma decisione la tua, Cristo tu sei la pietrificazione di un sogno, corazza d’insetto a difendere l’ultima speranza del genere umano, sei la madre che preserva i cuccioli, sei l’ostinazione, sei la violenza dell’amore. E io che non ne posso più della retorica di certa tenerezza a te mi affido, sei come animale a difesa dei suoi cuccioli, sei la promessa che non saremo strappati da te, sei la mia unica speranza.


Non è solo “ferma decisione” la tua, tu sei un volto indurito che decide di non retrocedere, sei la resistenza a sputi, schiaffi, chiodi e perfino ai baci. Il mio essere samaritano impaurito non ti spaventa, la tua durezza resiste alla mia negazione, mi attraversi sempre e speri che io un giorno possa arrivare a capire. Solo non sopporti i discepoli, non sopporti quando anche io sono religiosa milizia armata pronta a imporre durezza solo alle morali altrui. Tu non sopporti il volto indurito delle maschere ipocrite. Si può essere duri solo con se stessi e solo per amore, questo non ti stanchi di ripetere. Non si invoca un fuoco dal cielo, se si riesce fuoco si diventa, e ci si consuma fino all’ultimo respiro ma solo per un amore ossessivo e mortale.

 

Non è solo “ferma decisione” la tua, io mi sono nutrito di decisioni che credevo incrollabili, io ho promesso, io ho giurato, io ho creduto che bastasse un sacramento che sancisse la mia volontà di seguirti ovunque. Invece mi ha seguito tu, solo tu, perfino nei miei naufragi. Mi ha stanato con caparbietà ossessiva, colpevole solo d’essere pari a quella delle madri. Tu mi anticipavi nelle tane che costruivo, tu le usurpavi, tu hai sconsacrato ogni nido intrecciato solo per fuggire dal tuo sguardo. Mentre io mi ostinavo a voler credere all’innocuo dio gentile ed educato delle suore, al dio della debolezza, al dio che morbido si adegua alle mie scelte tu mi stanavi, tu eri orda barbarica di una forza che non sapevo ancora definire d’amore.

 

Non è solo “ferma decisione” la tua, tua è la chiamata gridata mentre mio padre muore, tua è la scelta durissima di manifestarti tra i lineamenti duri di un padre quasi cadavere, tuo il volto indurito dal male, tua è la durezza della solitudine, tu solo e sempre tu, a non permettermi di seppellirti con la delusione di non essere stato esaudito nelle mie preghiere. Tu a liberarmi con un morso al cuore dall’infantilismo di chi cerca in tutti i modi di rimanere figlio in eterno. Altro che tenerezza, tu a seppellirti con mio padre e io, solo, a non poter ancora fare a meno di te.

 

Adesso ho questo aratro tra le mani e dietro di me lascio solchi che tagliano la crosta terrestre, ferisce anche il mio di passaggio su questa terra, io che ti avevo scelto convinto di non far più del male a nessuno, per dilatare una pacificazione che ho scoperto solo dopo qui sarebbe solo blasfema pantomima del paradiso.

 

Duro come lama di questo aratro è il volto tuo, e mi scavi, mi apri, mi dilani l’anima, sei sconcertante nella tua ossessione per me. E io non posso farne a meno ormai. A volte vorrei voltarmi e tornare ad un’immagine più leggera, a quel dio amico e promettente che rendeva sensata la mia vita, che mi dava un posto nel mondo, che tramutava ogni mia azione in gratitudine di amici e parrocchiani. Non rinnego niente, è stato bello ed è stato giusto così, e oggi non sono certo più triste di allora (sento già la preoccupazione di chi non riesce a capire, di chi crede che io ora sia deluso o sconsolato, sento già la preoccupazione di chi non capisce che lasciarsi trafiggere d’amore, che riuscire finalmente a nascondersi tra le trincee dei solchi del tuo viso è ciò che rende degna di essere vissuta la vita).

 

Io sto nella tua ombra, ci sto nella felicità e nello smarrimento, ci sto nel peccato e nella santità, ci sto qui e ora, così come sono, e sto al sicuro. Non ha senso guardare a ciò che è stato, ora c’è solo da non volgersi indietro e continuare ad arare, e indurire anche il mio di volto, per quel che posso, per quel che riesco, fino a quando riconoscerò il mio Calvario e pianteremo insieme l’aratro a forma di croce e sprofonderò anche io sperando di essere elevato dalla tua misericordia.