
In quel tempo, avendo udito della morte di Giovanni Battista, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte.
Muore Giovanni il Battista e Gesù si ritira, concede spazio al silenzio e alla solitudine. Non sfrutta il momento per imporre un’idea di Dio, non finge che la morte non abbia una forza sconvolgente sulla vita. La morte è la vita che si ritira, è bassa marea che mette a nudo, come ferite esposte, tutti i detriti depositati sul fondo e coperti dalle abitudini e dalle consuetudini. La morte svela. E Gesù si lascia colpire dalla morte. Non fa finta di nulla. Non concede risposte facili.
E quanto vorrei che tacessero per sempre certe semplificazioni sul morire, certi stupidi consigli sul modo di vivere il lutto. Certa predicazione poco evangelica che svaluta il dolore. Gesù alla morte del profeta si ritira in luogo deserto e in disparte. Lasciate che chi soffre si rechi negli stessi deserti e lasciate che scelga il tempo di sosta. Che la Chiesa vada nella stessa direzione, se vuole, ma lo faccia in silenzio, e con discrezione, come chi si ritira.
Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
le folle sono attratte dalla verità, dalle persone vere. E alle persone vere noi siamo disposti a consegnarci, a svelare anche la parte più malata e fragile di noi. Gesù non concede facili risposte ma da quel deserto che sta abitando, da quel “disparte” di dolore e paura, da quel silenzio da cui contemplare la caduta violenta dell’ennesimo profeta per mano del potere, da quello spazio ritirato di solitudine da dove può intravedere già anche la sua di fine… impastato di lacrime e silenzi può partorire l’unico sentimento in grado di reggere il confronto con la fragilità e la morte: la compassione. Senza compassione non dovremmo avere diritto di parola.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
Come se avessero vergogna. Come se avessero finito di usarli. Come se fosse arrivato il limite massimo di sopportazione. Come se i discepoli, i preti, i volontari parrocchiali fossero altro da quella umanità scartata e malata. Ecco l’errore mortale, il peccato all’origine di ogni fallimento pastorale: considerarsi altro rispetto alla folla. Se le nostre fraternità sacerdotali continuano imperterrite a fingere di essere luoghi per discepoli chiamati a prendersi solo cura del popolo continueremo a essere traditori del Vangelo. Fino a quando le parrocchie moltiplicheranno progetti pastorali per rispondere alle esigenze del mondo saremo solo patetici funzionari del religioso. Il giorno in cui avremo il coraggio di mostrare la piaga della nostra malattia, il giorno in cui ci mostreremo vulnerabili e bisognosi (ma noi continuiamo a negare l’evidenza!) in quel momento noi saremo liberi e veri, folla fragile e amata.
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Sedetevi su questo prato, su questa erba che profuma di vita, non abbiate paura del tramonto, non sarà mai definitivo. Questo sembra voler dire Gesù. Imparare a sedersi nei propri tramonti, imparare a morire. E poi prendere i pani e i pesci, ma dopo averli chiesti, cioè senza pretesa, imparare ad accogliere quello che siamo, a sentire che il poco che abbiamo è riflesso dell’Infinito. E se non è chiaro…allora basta alzare gli occhi al cielo. E imparare l’arte della benedizione, del dire bene. Riuscire ad avere così tanto cielo negli occhi da dire bene della vita al tramonto. E spezzare, aprirsi come un seme. Partorire vita.
Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
Io le dodici ceste piene le avrei lasciate in quel deserto, in disparte. A memoria. E avrei detto ai discepoli di tornare spesso a contemplare quel dodici riempito di scarto. Dodici vuoti pieni solo di pane avanzato. Si avanza solo se si accetta di essere scarto, come la pietra. Si avanza solo se ci si svuota, se si diventa cesta affamata. Se ci si sente parte della grande folla. Seduti su quel mare di erba. Affamati e bellissimi.