Tremendo amore

Dodicesima domenica Tempo Ordinario anno B

 

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano (Giobbe)

Signore che parli dagli uragani della vita

liberami da me stesso, dalle lamentele, da questo sentirmi sempre in credito con l’esistenza, da questa insopportabile sfacciataggine che mi fa alzare la voce con te. Io che in fondo mi credo più retto di Giobbe e che reputo ingiusti gli accadimenti che mettono alla prova la mia visione del mondo. Io che non voglio abbassare la testa mai. Io che dimentico che Tu sei il creatore, l’immenso, il mio tremendo amore.

 

«Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando usciva impetuoso dal seno materno,
quando io lo vestivo di nubi (Giobbe)

Signore che parli dal cuore degli uragani, che cavalchi i terrori che mi opprimono, che abiti perfino le tempeste della morte, ricordami che tu sei l’onnipotente, colui che mette argine al timore, colui che, come una madre, tranquillizza il ruggito disperato dei miei incubi più terribili. Ricordami la tua maestosità, rivestimi d’umiltà, rimettimi al posto creaturale che mi spetta, al sussurro che sono, all’inutilità della mia vita. Io non sono che un soffio in balia del mio orgoglio, tu sei la rosa dei venti. Signore fammi tacere, mostrami la mia arroganza, la tracotanza di chi si permette perfino di citarti in giudizio, la superbia di un Giobbe, ma peccatore.

(E fammi fremere d’amore per te, perché nonostante tutto, tu tutto sospendi per parlare al mio cuore come fossi figlio unico).

 

Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede (2 Corinzi)

Signore sono in mano tua, posseduto quasi contro la mia volontà. Credevo di averti seguito invece sei stato tu a chiamarmi trascinandomi dove io non volevo andare. Ho provato a divincolarmi da te, a liberarmi dalla morsa, che il tuo amore è violento, l’ho capito, ma non sono riuscito, sfiancato mi sono lasciato andare in te. Senza di te io non sono. Tu che hai ingabbiato tra due porte il mare hai sorriso di quello che a me pareva titanica ribellione. Avresti potuto lasciarmi andare. Io mi sarei perso e nessuno si sarebbe accorto di nulla. Invece la tua morsa è fedele, come una vendetta.

 

…noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. (2 Corinzi)

Poi tu sei morto. E la violenza si è dissolta in un atto d’amore senza precedenti. Sei morto a causa mia, non ho mai capito questa frase antica e minacciosa, sei morto per i nostri peccati, dicevano, e io non capivo. Perché non c’è nulla da capire. C’è da lasciarti entrare. Sei morto perché io non mi limitassi a vivere per me stesso, estrema disperazione, sei morto perché i miei sogni non avessero il perimetro solo della mia miseria, sei morto per liberarmi dalla tirannia di considerarmi misura di ogni cosa. Sei morto per seppellirti in me, perché ogni mio gesto vivesse in Te. Perché ogni mio tentativo d’amore fosse già esperienza di resurrezione. Sei morto perché ti lasciassi vivere in me.

(E io a chiedermi ancora se valga la pena la pena di vivere, e non capire che questo è il tempo per impararti vivo tra le mie carni).

 

Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. (2 Corinzi)

Per essere in Te e tu in me. Anche nel cuore degli uragani. Liberami dal Giobbe che vorrebbe continuare ad accusarti. Ti sei condannato volontariamente a prendere esilio nella mia pochezza. Non mi serve altro.

 

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». (Marco)

La sento questa sera che consuma i lineamenti del mio viso, che si nutre di me. Questo l’uragano che ci stordisce ad ogni istante, il lento scavo della morte. Attraverso la tempesta mi inviti all’altra vita. Beatissima morte, traversata senza la quale nulla avrebbe senso. Non aspetto certo di morire. Sto morendo da sempre.

 

E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». (Marco)

Guardo la folla andarsene, sono contento di non essere tra i sopravvissuti. Tante volte mi hai congedato, non ero ancora pronto, tornavo tra le cose del mondo pensando fossero assolute. Non sapevo rispondere al tuo appello. Salire sulla barca è condannarsi alla tempesta, e più ancora al tuo silenzio. Te ne stai come un bimbo nel ventre della madre, consegnato come già morto, inutile e deposto nel fondo di una barca. La mia paura ti sveglia e tu ti lasci riportare in vita. Non ho ancora capito nulla. Arriverà il tempo in cui dal sepolcro non saprò richiamarti. Sarò io invece, finalmente, a lasciarmi predare. E forse comprenderò che ero al mondo solo per imparare ad addormentarmi con te nel cuore, tra le braccia di un uragano che ci trascina all’altra vita, all’altro mondo, all’Eterno.

 

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». (Marco)